“Donne sull’orlo di una crisi di nervi” di P. Almodovar

Adoro quei film provocatori e ironici che riflettono su tematiche anche serie strappandoti un sorriso. Li adoro ancora di più se si concentrano sui rapporti tra uomo e donna, in cui emergono gli aspetti che più ci caratterizzano. “Donne sull’orlo di una crisi di nervi” è un film del 1988 di Pedro Almodovar che io ho visto solo ultimamente, restandone “avvinghiata” per tutta la durata, con un sorriso sulle labbra. Il regista è noto per i temi a lui più cari quali i rapporti tra le donne, l’ambiguità sessuale, l’amore e la passione, l’omosessualità trattata in chiave ironica e la critica alla religione.                                         In merito al film di cui vi parlo oggi, egli stesso ha detto: “Una commedia sofisticata, molto sentimentale. Qualunque stramberia appare verosimile se implica dei sentimenti. L’emozione sentimentale è sempre il miglior veicolo per raccontare qualunque storia. E l’allegria, ovviamente, lo stavo dimenticando. Perché da una commedia, di qualunque tipo essa sia, deve traspirare allegria”.                                                

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L’amore e la sofferenza sono il fulcro intorno al quale ruotano i personaggi e si dispiegano in forme parodistiche, tra simbologie e prototipi. Tutto ha inizio quando Pepa, doppiatrice cinematografica, viene lasciata dal fidanzato Ivan tramite un messaggio lasciato in segreteria proprio nel momento in cui scopre di essere incinta.                                     Pepa è determinata, dinamica, esprime e crea movimento. È decisa a incontrarlo e inizia a cercarlo ma lui non si fa trovare oppure le dice, tenendo si a distanza e senza vederla, bugie che lei svela immediatamente.                                                                                 Ivan rappresenta il prototipo di uomo fredifrago e vigliacco, l’elemento verso il quale e a causa del quale si mettono in moto gli inseguimenti e il movimento del film.                  Sono due personaggi diversi, alla schiettezza e al coraggio di Pepa corrisponde l’inettitudine e l’irresponsabilità di Ivan. Ad ogni mancanza di Ivan corrisponde una reazione di Pepa, fino all’innescarsi di un meccanismo senza controllo che troverà pace solo sul finale.                                                                                                                                     Gran parte della vicenda si svolge nell’attico di Pepa in cui vivono diversi animali e dove finiscono per raccogliersi personaggi fuori dalle righe come l’amica Candela, Carlos, figlio di Iván con la sua fidanzata, Lucía, moglie di Iván e madre di Carlos, una coppia di poliziotti, un tecnico telefonico. L’attico funge da palcoscenico e luogo in cui Pepa accoglie chi le sta intorno. È una specie di spazio che “abbraccia” e permette lo sfogo della rabbia, le confidenze e la solidarietà. Qui ciascuna delle reazioni delle donne sembra avere legittimità, perché di fronte al silenzio, agli imbrogli e alle bugie che ciascuna si porta dietro insieme alla sua storia, anche un telefono scaraventato fuori dalla finestra ha la sua ragione d’essere.

3Il telefono è l’oggetto feticcio della narrazione, intorno ad esso si susseguono attese, chiamate, non risposte. Lanciato via, distrutto e sistemato e poi di nuovo in pezzi. Il telefono è rosso, lo sono anche i pomodori e il gazpacho. Il rosso è il colore per eccellenza scelto dal regista.                       Si lega alla passione, alla rabbia, alla gelosia.                                                    Dettagli rossi caratterizzano anche l’abbigliamento di Pepa e delle altre donne sempre in abiti abbastanza vistosi.

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Oltre ad Ivan, sono presenti altri personaggi maschili che aiutano le donne nei loro inseguimenti e appaiono solo in questa funzione. Gelosia, follia, mancanze.                     L’amore è il tema centrale del film, l’amore che si porta dietro diverse espressioni e situazioni.                                                                                                                                Donne e uomini.                                                                                                               Donne che non riescono a comunicare con gli uomini e uomini che finiscono per “sbiadirsi” di fronte ai punti di forza che le donne generano dalle proprie debolezze, mentre cercano di restare a galla sul limite, in quella zone borderline prima dello scoppio…di nervi.

Anna Magnani ‘er core de Roma

“Non so se sono un’attrice, una grande attrice o una grande artista. Non so se sono capace di recitare. Ho dentro di me tante figure, tante donne, duemila donne. Ho solo bisogno di incontrarle. Devono essere vere, ecco tutto”. (Anna Magnani)

Personalità è la parola che meglio rappresenta Anna Magnani.

E fu la sua personalità mista alla schiettezza a colpirmi una mattina trascorsa nella sala cinema ai tempi dell’università. Ricordo ancora le immagini che scorrevano sullo schermo del film di Visconti “Bellissima”, i l volto e i gesti della sua protagonista, l’attrice italiana che per prima ha vinto un Oscar, quella che il Times definì “divina, semplicemente divina.”

anna 1Il 26 settembre è stato l’anniversario della sua morte, sono passati quarant’anni da quando il nostro Paese e il cinema mondiale ha perso una figura di riferimento così speciale.

Talento, espressività, passionalità.       Grazie a queste caratteristiche era lei ad essere voluta dai maggiori registi italiani: De Sica, Pasolini, Visconti, Rossellini, Fellini. Grazie a queste doti emerse e divenne un mito nonostante gli anni ’50-’60 vedessero il trionfo di attrici bellissime e prorompenti.

No, Anna Magnani era un’altra bellezza, quella della genuinità, della forza che da dentro conferisce qualcosa di particolare e intangibile al di fuori. Intense le sue interpretazioni, vicina alle donne comuni del tempo, mito del movimento del Neorealismo.

Era mutevole, non etichettabile, mille facce di donna prima che di attrice. Lei stessa diceva: “Lo so, sono la donna più discontinua del mondo. Tutto cambia dentro di me da un’ora all’altra. Il fatto è che seguo il mio istinto ed il mio cuore. Non mi curo di quel che sembro, mai! Sono cosi come la vita, le speranze, ipocrisie.”

anna4Anna Magnani era quella donna che non voleva le si togliessero le sue rughe, ci aveva impiegato una vita a farsele venire. Era una donna in grado di rendere i suoi “difetti” dei punti di forza. L’irregolarità che passava attraverso i tratti marcati, vissuti, una fisicità materna e le occhiaie che enfatizzavano i suoi vividi occhi pieni di espressività, era la chiave del suo fascino.

Nel 1956 vinse il premio Oscar come migliore attrice protagonista per “La rosa tatuata”, il suo primo film americano, recitato quindi in lingua inglese. Nello stesso anno vinse anche il suo quinto nastro d’argento per l’interpretazione nel film “Suor Letizia” di Mario Camerini.

Dopo vari ruoli come cameriera e cantante, nel ’41 Vittorio De Sica le aveva affidato quello di un’artista di varietà nel film “Teresa venerdì” e aveva recitato anche nell’avanspettacolo di Totò.

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È nel ’45 con “Roma città aperta” che ha raggiunto la fama mondiale vincendo il primo Nastro d’Argento. La scena che più di altre la ricorda è proprio quella finale di questo film simbolo del Neorealismo, nella quale Pina (A. Magnani) urla e corre dietro ad un camion su cui i tedeschi stanno portando via il suo uomo.

anna2Anna Magnani è ricordata come ‘er core de Roma, sua città natale ed impersonificava più di chiunque altro il carattere stesso della Capitale, verace e autentica. Eppure, in un’intervista considerava la sua città cambiata nel tempo, profondamente diversa.           Ma forse, la sua città in fondo era volubile come lei.

A chi le chiese: Chi è Anna Magnani, rispose: “Chi sono io? Boh. Ci sono dei giorni che non mi posso vedere e altri che mi sono tanto simpatica. Dunque, non lo so.”

Ho scritto questo post dedicato a lei, perché nel mio piccolo anch’io ho avuto modo di restare colpita dalla sua interpretazione e dalle sensazioni che suscitava. Ci sarebbero chissà quante altre parole da usare per ricordarla, ma penso che il modo migliore sia guardarla, “viverla” vedendo uno dei film di cui è stata protagonista. Riscoprendo il gusto del passato, in un presente in cerca di quell’energia che lei possedeva.

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Holy Motors

“Per la bellezza, la bellezza del gesto” cit. Oscar

Una sera in giro per le strade di Parigi, per di più in limusine e ancor più passando tra palcoscenico e pseudo realtà è il viaggio che ho intrapreso durante la visione di Holy Motors.Teatro e cinema. Quello in cui ti trovi da osservatore e quello proposto sullo schermo e quello vissuto dal protagonista. Un set che ha i tratti che meno ti aspetti e che invece, è proprio quello in cui ognuno di noi vive quotidinamente. Le ventiquattro ore di Oscar sono il tempo del nostro giorno scandito di maschera in maschera, di ruolo in ruolo, tra stati d’animo diversi e sostituibili.

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Holy motors è un film di Leos Carax, presentato in Concorso all’edizione 2012 del Festival di Cannes e giunto nelle sale italiane nel giugno 2013. Nello stesso protagonista considererei due interpretazioni: una è quella che mi fa pensare ad un omaggio alla figura dell’attore, identità multipla e volubile, straniato e visceralmente legato al suo mestiere senza un’alternativa di vita altra, con un velo di malinconia nello sguardo che noti dalla prima inquaratura. E l’altra è quella riferita più in generale all’uomo, ad ogni essere umano e alle sue mille vite.

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Oscar (Denis Lavant), il nome non è un caso, è un’attore che, a bordo di una limousine allestita a camerino e guidata dalla sua chauffeuse che lo accompagna e aiuta a rispettare gli orari degli “appuntamenti”, studia il copione e si prepara per interpretare i vari personaggi una volta fuori per le strade di Parigi, in un cimitero, nelle fogne e altri posti che si rendono palcoscenico di una barbona, di un banchiere, di un folle, di un padre ecc. Denuncia sociale, citazioni, riferimenti alla storia del cinema, ai diversi generi, agli studi sul movimento e l’immagine di una sala cinematografica proprio all’inizio, riferimenti ad altri film (forse al Pianeta delle Scimmie ad esempio nel finale?) e all’arte (ho vagamente pensato alla Pietà di Michelangelo in una scena che la richiama quasi in modo blasfemo).

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Lasciate perdere i ragionamenti, la logica, i significati e i tentativi di risalire ai richiami disseminati qua e là, il film è enigmatico per scelta del regista. Mira a coinvolgere lo spettatore, a colpirlo, a provocarlo, a sorprenderlo in un’ altalena di giudizi negativi e positivi, passando per sensazioni che vanno dalla curiosità al dubbio, dalla incomprensione al disgusto fino alla propria e più personale interpretazione, o meglio, alle mille interpretazioni possibili.

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Holy Motors è un film virtuale e uso il termine alla Pier Levì, inteso come possibile altrimenti e il passo che dunque mi porterebbe a definirlo complesso è breve. La complessità in cui anneghi, ti perdi o ti stuzzica. Holy Motors non annoia anche se non ti piace. È la forza del cinema che guarada a nuove forme, è ciò su cui ha sempre giocato l’ espressione meno convenzionale della settima arte. Ma se cercate una storia rassicurante, dispiegata tra un inizio e una fine, a conclusione della quale non chiedervi: “cosa voleva dire?” allora non fa per voi, o forse sì perchè sarebbe l’occasione per andare oltre il cinema di consumo. Sarebbe un modo per dare speranza a chi percepisce una crisi, un cambiamento di valori sotto il peso del mercato cinematografico, di cui lo stesso Oscar considererei portavoce sul finale, quando chiede dove siano le telecamere, quando parla in modo un po’ più esplicito del suo lavoro e quando ad ascoltarlo, percepisci che qualcosa sta cambiando nel suo mondo. (La limousine ne è l’ultimo simbolo) Sarebbe l’occasione per raccogliere la sfida di chi cerca nuove strade per il racconto del cinema di oggi e del futuro.

IL LATO POSITIVO

Tiffany : “La senti? Questa è emozione”. 

Il lato positivo, quante volte ci è stato detto “guarda illato positivo della cosa”, invitati a considerare una problematica sotto una prospettiva diversa, incoraggiati in qualche modo affinché non ci abbattessimo. E quante volte lo abbiamo ripetuto  a noi stessi, nel tentativo di aggrapparci a quel benedetto lato positivo…

In realtà, il lato positivo esiste, che sia un’illusione o verità, c’è e possiamo vederlo. E può davvero avere effetti facendoci nel farci tirare un respiro di sollievo, darci la carica per continuare.

Il lato positivo è il titolo dell’ultimo film che ho visto al cinema e il suo protagonista ne fa un atteggiamento di vita. E, essendo un film sottolinerei cinicamente, lo porta a un finale che ci dà la spinta a crederci, sempre. Ma i finali, quella della vita non sono sempre come nei film ed è quello che c’è nel mezzo ciò a cui tutti ci possiamo avvicinare.

2 (2)Pat Soliano non ha più una casa, un lavoro moglie.        Esce da un ospedale psichiatrico dove ha trascorso del tempo per aver massacrato di botte l’amante della moglie e gli hanno diagnosticato un disturbo bipolare ma è determinato a ricostruire la sua vita: è pieno di buone intenzioni, ottimi propositi, riempie le giornate di attività che lo facciano sentire ancora vivo, ancora presente sulla strada della sua esistenza. Ed è così che va a fare jogging ogni giorno, legge libri che la moglie fa leggere ai suoi studenti e finisce anche per accettare di imparare a ballare.                       Se sarà una persona migliore è sicuro avrà una possibilità di riconquistare anche sua moglie.

Tra desiderio di rivincita, scoperta di un nuovo sé e problematiche date dal ritorno alla convivenza con i suoi, quello vissuto dal protagonista è uno di quei momenti della vita in cui ognuno di noi ha bisogno di ripartire e sceglie mille strategie, mosso da un istinto insito dentro. “Excelsior” (positività) diventa il suo mantra e cerca di vedere il lato positivo in ogni cosa che fa.

Deve anche fare i conti con un padre, scommettitore incallito, con l’ossessione del football, che sogna di aprire un ristorante e con il quale non ha avuto sempre incomprensioni e con il fratello che lo ha sempre messo in ombra.

Nuovo, coraggio, inclinazioni a buttarsi da un lato e timore, ricordi, tormenti dall’altro.

In questo contesto psicologico e di azioni, capita che arrivi  l’elemento inaspettato, quello che ancor di più sovverte ogni cosa. Quello che non puoi evitare di seguire.

Nel film si tratta di Tiffany, una misteriosa e problematica giovane donna, da poco vedova e anche lei con le sue ossessioni, che si offre di aiutarlo, di stargli accanto. Tiffany in qualche modo crede nelle potenzialità di Pat e gli propone un patto: lo aiuterà a riconquistare sua moglie, le consegnerà anche una lettera da parte sua sebbene l’ordine restrittivo lo proibisca ma lui dovrà impegnarsi, tirare fuori il meglio di sé e fare qualcosa in cambio per lei. Infatti, Tiffany intende partecipare ad una famosa gara di ballo e lui dovrà essere il suo partner.

Assidui nel loro impegno di preparazione al ballo e conoscendosi, dagli scontri iniziali passano ad un aiutarsi reciproco, fino alla nascita di un’intesa speciale.

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Il lato positivo dà spazio a due personaggi al limite, alle loro nevrosi, depressione, mancanza di autocontrollo e alla sensazione di essere diversi. Lo spettatore non può non riconoscersi almeno un po’ in loro e per questo li segue con curiosità e simpatia, empatizzando con le insicurezze e la volontà di Pat e la stravaganza e determinazione di Tiffany.

Commedia e dramma si alternano o meglio, li ho trovati ben “accordati”, ogni scena o battuta ironica in realtà aveva un suo perché in una spiegazione seria e schietta, talvolta brutale. Un sottile dettaglio che non tutti forse hanno percepito.                                         Un avvicinamento alla vita che dà qualcosa in più alla narrazione.                                       La regia inoltre, ci offre gran parte delle azioni racchiuse in una strada, quella dove Pat va a correre, dove incontra Tiffany, dove c’è la sua casa.

La strada è metafora di quel cammino che dicevo, del viaggio intrapreso verso la nuova vita e sulla quale dare spazio alle parti migliori di sé. Così come la corsa, che permette a Pat di stare lontano dagli errori passati e dal loro ricordo.

4 (1)Per quanto riguarda la gara,  sarà legata anche ad un’altra scommessa che coinvolge la famiglia di Pat, la moglie sarà presente e lui alla fine scenderà in pista.                                      Come andrà a finire non ve lo dico, ma ribadisco che al di là di come vanno alla fine le cose, anche sorprendendoci molto spesso, ogni nuova avventura che ogni giorno ci concediamo, ha dentro di sé un’energia che si trascina dietro dubbi e timori verso qualcosa di nuovo per noi. Sempre.                   Una conoscenza che vale più del risultato.                                                                                      Il lato positivo della cosa è questo.

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Pat: “Sai cosa farò? Prenderò tutta questa negatività e la userò come carburante per trovare il lato positivo! È questo che farò! Non è una stronzata…Ci vuole impegno!”

Il lato positivo è tratto dal romanzo di Matthew Quick “L’orlo argenteo delle nuvole”, con protagonisti Bradley Cooper e Jennifer Lawrence. Ha ricevuto otto nomination ai premi Oscar del 2013, vincendo quello alla Miglior attrice protagonista, consegnato a Jennifer Lawrence.

Le donne di Antonioni

E’ da tanto che volevo omaggiare uno dei miei registi preferiti con un post su Oltreloscoglio. Vorrei che fosse un ricordo, un’immersione in quei film che per me sono stati i film più significativi e credo lo resteranno per sempre.

La Tetralogia dei sentimenti di Michelangelo Antonioni, incentrata sull’incomunicabilità tra uomo e donna, si compone di: “L’avventura”, “La notte”, “L’eclisse” e “”Deserto rosso”. In questi capolavori le protagoniste sono le donne: capaci di percepire attriti, difficoltà, di essere un filtro. Antonioni stesso ha detto: “c’è nella donna un acume istintivo che l’uomo non sempre ha”. E questa specificità che le contraddistingue viene vista principalmente in rapporto agli uomini. E’ la donna a dimostrare la sua sensibilità e capacità comunicazionale, per natura portata allo sfogo, ad esternare gioie e dolori, al contrario degli uomini passivi, superficiali nei sentimenti e divorati da tensioni latenti. E in questi film Monica Vitti è eccellente nei ruoli che Antonioni le affida. Perché penso che sia qualcosa di profondamente suo a creare l’effetto che lo spettatore coglie, dai suoi sguardi e gesti, dal suo essere.

In “L’avventura” troviamo Claudia, allegra, spensierata contrapposta ad una Anna turbata e annoiata. Claudia è capace di cogliere il bello delle cose ma è anche fragile. Quest’ultimo aspetto emerge solo dopo il tragico evento della scomparsa di Anna e sempre da questo momento, inizia la vera storia narrata nel film, che coinvolge Claudia e Sandro alla scoperta di un legame nuovo. Il tutto sullo sfondo delle isole Eolie, sterili paesaggi che per il regista delineano la crisi dei sentimenti, l’agonia delle tormentate coppie protagoniste del film. E poi, indimenticabile è l’ultima scena sulla terrazza, con Claudia e Sandro in due piani diversi, di spalle, lei in piedi con lo sguardo nel vuoto, lui seduto con la testa china. Un rimando di piani fino al dettaglio della mano di lei sulla testa dell’uomo, come a perdonarlo. Un campo lungo ce li restituisce così vicini ma perduti nei loro pensieri.

la notte

In una Milano moderna e astratta, “La notte” ci fa vivere la giornata di una giovane coppia: Giovanni, scrittore affermato e Lidia, moglie annoiata e malinconica. Non hanno più un rapporto sincero e dopo una festa, al termine della nottata, giungono alla consapevolezza della loro crisi. Lidia a differenza degli altri personaggi femminili di Antonioni non manifesta il suo disagio cercando di parlare, discutere ma attraverso gesti, sguardi. Il suo silenzio diventa un monologo interiore come la passeggiata nella periferia milanese, ricerca sensazioni, incontri, qualcosa che la faccia sentire viva. Lidia vorrebbe guardare avanti ma riesce solo a muoversi con titubanza e angoscia. L’incomunicabilità della coppia è evidente nel non guardarsi, nei silenzi e nelle distanze spaziali.

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Analistica, riflessiva e istintiva, Vittoria è la protagonista del terzo film della Tetralogia, “L’eclisse”. Ha discusso, riflettuto prima di lasciare Riccardo ma lui non vede il problema, si muove su un binario diverso. Desolazione e sentimenti in una Roma spoglia e poco popolata come quella dell’Eur. Eppure in tante inquadrature compaiono elementi testimoni delle vicende dei personaggi: l’acquedotto, alberi, pali d’acciaio, un camcello, una finestra, una tenda. Confini, oggetti d’appoggio. E poi la superficialità, il cinismo di Piero, altro personaggio maschile sulla strada di Vittoria, caratteri che emergono da tutti i suoi comportamenti, gesti.

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In “Deserto rosso” Giuliana è stanca, debole, fragile. Ha paura di tutto ciò che l acirconda, instabile e in bilico tra il mondo reale e il “suo”. Nevrosi, sbalzi d’umore, tentativi di aggrapparsi alla vita e amore per il marito e il figlio. Il senso di vuoto che domina. Un tentativo di suicidio. Anche il suo grido d’aiuto non ottiene risposta. Il marito prova solo pietà, mentre Corrado è incuriosito dalla sua ambiguità e la relazione tra i due finisce bruscamente, senza parole. Alla fine non c’è guarigione, Giuliana acquista consapevolezza di sé e di quello che la vita le regala, accettandolo, nel bene e nel male. Giuliana però, è l’unica che abbia un giusto e naturale sentimento di terrore nei confronti della freddezza esterna così come della distanza dei rapporti umani. Realtà industriale, la fabbrica, paesaggi di periferia ed inquadrature fisse, sono date come risultato dell’annullamento della vita. Gesti impulsivi e “follia” di Giuliana, si contrappongono all’apparente coinvolgimento degli altri negli ambienti e sono quelli che considererei uno strumento di contestazione delle convenzioni assurde e fasulle della vita sociale. Gli altri invece sono cristallizzati nelle loro forme. Infine, ci terrei a ricordare quanto i colori siano i veri protagonisti assoluti di questo film: è l’espressività delle immagini a trasmettere sensazioni, emozioni. Sono stati per Antonioni, un ulteriore elemento di espressione da sperimentare.

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Tengo tanto a questi film, l’ho già detto, come al mondo che ne esce fuori attraverso l’uso della macchina da presa di Antonioni, la vera sensibilità credo sia la sua. Quella che poi accompagna lo spettatore ad accostarsi a riflessioni senza timore, riconoscendo ciò che siamo tutti noi. Uomini e donne, oltre le apparenze, le convenzioni e le maschere che decidiamo di indossare o gettare.

DOPPIA PERSONALITA’ di Brian De Palma

Sera tardi, divano e sbadiglio che fa valutare che è arrivato il momento di andare a dormire. Zapping dei canali giusto per sbirciare… nulla di nuovo, soliti programmi di seconda serata con le solite facce e i soliti copioni, pubblicità, repliche di programmi pomeridiani… e la faccia di Dario Argento. Nello stesso istante percepisco che fuori sta piovendo… resto ad ascoltarlo mentre presenta un film di Brian de Palma, assonnata mi dico che dev’essere interessante, dovrò scaricarmelo. Ma di lì a poco le immagini di Doppia Personalità (1992) iniziano a scorrere sullo schermo e qualcos ami dice che il letto può aspettare.

Bambini. Psichiatria. Un assassino insospettabile. Comportamento e faccia del protagonista in linea con i personaggi che non ignori facilmente.

Il dottor Carter Nix si mostra a tratti, la sua storia si dispiega tra rimandi, flash back, intuizioni, ricordi, visioni. Il dottor Carter impiega cinque se stesso per darsi allo spettatore al mondo in cui vive.

3Doppia Personalità racconta la storia di questo psichiatra infantile che sperimenta le sue teorie sulla figlia, alla quale è legato in modo quasi morboso, non la perde d’occhio e si preoccupa che non pianga, che non abbia paura, che non si svegli la notte… tant’è che nella sua camera ha uno schermo televisivo che restituisce le immagini della stanza della bambina mentre dorme. Sua moglie è invece insofferente, distaccata, poco materna. Carter è in lotta con un l’altro Se aggressivo, cinico e spietato. In grado di dare sfogo al dolore sopportato silenziosamente da Carter. Infatti Crater è egli stesso figlio di uno psichiatra, morto suicida, che lo ha sottoposto da piccolo a esperimenti relativi al comportamento infantile. Suo padre voleva studiare la nascita di personalità multiple e per farlo doveva crearle lui, ha così fatto vivere al figlio i traumi necessari allo sviluppo di ciascun tipo di personalità. Tra le cinque, Caino è quella che si è addossato tutta la sofferenza per il male subito come quella che determina il senso di colpa per gli omicidi.

2 (1)Ma anche la moglie Jenny è divisa tra la vita di moglie e quella di amante del marito di una sua paziente morta. Vive nella realtà ma anche in un mondo onirico. I suoi sogni sono uno degli elementi centrali di Doppia Personalità, pieni di scene premonitrici e in un asse temporale tra passato e futuro senza logica.

E poi ci sono i ricordi. Ad esempio la scena del parco è proposta dal regista prima come la ricorda lei e poi come l’ha vista Carter che la spiava con il suo amante.

De Palma si distingue per uno stile personale e riconoscibile, gli elementi base del suo cinema sono il piano sequenza, le soggettive che amplificano la profondità di campo, il voyerismo e il tema del doppio. Doppia Personalità li contiene tutti come pure le citazioni e rimandi ad altri film, in particolare al giallo classico hitchcockiano.

Parodia e rielaborazione dei film ai quali si ispira.                                           Sperimentalismo.

Predilezione per le ellissi di piani temporali, carrelli laterali essenziali nel mostrare la dualità come quello che ci mostra prima Carter e poi Caino mentre si dispiega ai loro occhi la scena del tradimento al parco.

Il piano sequenza più efficace è quello attraverso il quale prende voce il racconto della dottoressa, collaboratrice in passato del padre di Carter, che spiega la storia del figlio di questo mentre insieme al tenente della polizia sale e scende i piani del commissariato fino ad arrivare a medicina legale, davanti al cadavere di una delle vittime.

Suspance e volti “sconvolti e gridanti” delle donne assassinate sorprendono lo spettatore.

Travestimenti e maschere sono strumenti che il regista usa per giocare con i suoi personaggi. E nella mente resterà impresso quello del protagonista nella scena finale, mentre si erge alle spalle di chi non sospetta nulla, con una smorfia sorridente.

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Sono tanti i momenti chiave, da rivedere forse, per coglierne il senso nell’incastro apparentemente senza ordine in cui li pone il regista. Indizi dipanati qua e là di una cinematografia che mi ha catturata e indotta a vedere altre opere di De Palma.      Magari durante il prossimo temporale…..

L’ISPETTORE COLIANDRO Quella verità che è in tutti noi

Occhiali Rayban a goccia, giacca di pelle, spaccone, schivo e ignorante.              Questo è l’antieroe italiano: l’ispettore Coliandro, il braccio maldestro della legge. Proprio ieri sera mi sono imbattuta in uno degli episodi in replica, visto, rivisto e che rivedo sempre con entusiamo! Nato dalla penna gialla di C. Lucarelli, è approdato in televisione nel 2006. La serie televisiva è diretta dai Matetti Bros che con uno stile veloce, autoironia e citazioni hanno lasciato un segno innovativo, alternativo e non banale nella fiction italiana. Ciò che cattura subito lo spettatore è la colonna sonora. Capisci subito che ciò che sta iniziando è qualcosa di nuovo, che cercavi e invano di solito trovi nella nostra tv.  E poi eccolo, l’uomo comune, il poliziotto vero con tutti i suoi difetti  e lati umani.

Coliandro è diretto, autentico. Fa figuracce, è imbranato, sfigato ed ha pure un lato infantile. È fan di C. Eastwood e ha un unico sogno: tornare in serie A.                          La serie A è la Squadra Mobile, viene spostato di volta in volta e assegnato allo spaccio alimentare, all’ufficio scomparsi, all’ufficio passaporti e pure al reparto cinofilo. Il commissario De Zan e la dottoressa Longhi infatti, non solo non lo stimano ma non fanno altro che cercare di tenerlo lontano dalle indagini.                                      Coliandro si caccia sempre nei guai, si trova in mezzo a indagini rilevanti per caso o perché intende portarle a termine prima di tutti per fare bella figura con i superiori.  Nelle storie più strane nelle quali si caccia c’è sempre una ragazza di mezzo che lo aiuta, legata in qualche modo al caso e che però si fida di lui. Ogni donna che lo affianca possiede quella intelligenza e intuito che a lui manca, così grazie alle loro informazioni e a qualche strano colpo di fortuna, Coliandro risolve i casi… Il più delle volte senza comprendere fino in fondo cosa è accaduto e rischiando di mettere in pericolo le indagini ufficiali. Alla fine si ritrova senza alcun merito, sedotto e abbandonato.

Coliandro ha la sua forza non solo nelle sue debolezze che lo rendono più vicino a noi ma anche nelle qualità: ironizza su tutto, non si prende sul serio, è autentico.         Crede in se stesso e in quello che fa. È buono, onesto, sa stare vicino a chi è più debole e soprattutto è in grado di cambiare. Sarà anche razzista, pieno di pregiudizi ma ogni volta sa mutarli, riuscendo ad andare oltre.                                                    “Minkia” è il suo intercalare e tante sono le sue frasi più celebri, qualcuna l’ho pure salvata sul cellulare una sera che non avevo dove segnarle… Anche gli altri personaggi parlano come fa nella realtà la gente comune.                                                     Violenza, parolacce, gergo da strada e un po’ di vera cattiveria colorano i dialoghi ricchi anche di citazioni. In ogni puntata ci sono riferimenti a film di genere degli anni ’70-’80, in particolare all’ispettore Callagan.                                                                        Bologna è l’altra protagonista, con le sue diverse problematiche urbane e Coliandro funge da “accompagnatore” tra le problematiche sociali e i luoghi comuni.              Senza ipocrisia, Coliandro è l’occhio sulla vita di una città a tinte noir. Le atmosfere sono ancor più suggestive grazie alle scelte musicali funky anni ’70, jazz, rap e heavy metal sempre ben inserite nella narrazione. Originalità, non banalità, cura della regia, nella costruzione dei dialoghi, nulla è lasciato al caso. Come forse superficialmente si potrebbe credere. Qualità che i telespettatori hanno colto e che dal 2010 sperano in nuovi episodi. Mentre continuano a vedersi propinare positivi e anticonformisti prodi personaggi che con genialità sconfiggono sempre il male o fiction di storie sdolcinate e dai dialoghi vicini a quelli delle soap. Ci vuole più coraggio ad essere realisti!            Non credo sia vero che lo spettatore voglia essere rassicurati e i fan di Coliandro sono una testimonianza. Più che di rassicurazioni, oggi vogliamo la realtà, vogliamo vedere sullo schermo noi stessi, con i nostri problemi, timori e capacità di cavarcela sempre e comunque, proprio come fa Coliandro.

Anche io nel frattempo non posso che dare il mio piccolo sostegno con questo post, continuare a vedere le repliche o le scene su YouTube, ridere, sorridere, anticipare le battute e finire sempre con il chiedermi quanto G. Morelli, che sembra abbia il personaggio cucito addosso con un’interpretazione perfetta, ci faccia o ci sia. E poi, lo confesso, a volte mi chiedo: “E se un giorno Coliandro incontrasse la mia ispettrice Claudia De Angeli e la chiamasse bambina?”…”sarebbe…Bestiale!”

IL SESTO SENSO visioni oltre la vita

Sensibilità.

Empatia.

Contatto.

Tre parole che cadono a pennello in un post per un blog come questo.

Da quando ho iniziato a scriverci, porto avanti il viaggio in tutto ciò che è oltre, oltre regole e convenzioni. Pongo lo sguardo al di là delle apparenze, sicura di trovarci qualcosa di non percepito, nascosto e proprio per questo di maggior importanza rispetto a tutto il resto.     Un discorso che vale ancor più con le persone, con l’altro di noi stessi che in pochi “toccano”.                                                                                                                              Eh sì, perché percepirlo, vederlo non è sempre facile, ma ancora più difficile è accettare la scommessa di avvicinarlo e toccarlo.

L’essenza più nascosta.                                                                                                  L’essenza che resterà sempre.                                                                                                  Forse l’anima.                                                                                                               Ognuno può dargli il nome che vuole.                                                                                       La vita non credo finisca in ciò che vediamo. E forse, ci sono Essenze intono a noi.               Per esperienza personale, penso di averne incontrate anche più di una.                         Angeli?                                                                                                                                Non so. Anche se al momento era l’unico nome che scelsi di dare.                      Probabilmente, perché ero in una situazione critica, l’Essenza, in forma di persona apparve da non so dove, mi ha aiutata, per poi perdersi lungo una strada…Oppure, quelle Essenze di persone che abbiamo conosciuto in vita e non ci sono più… Il discorso si fa complicato, ma non penso occorra stare tanto a pensarci.                                                                      La questione sta nel sentire, percepire. La disposizione soggettiva verso qualcosa di poco definito secondo canoni tradizionali.   

                                                                              “Vedo la gente morta.”

è la frase più famosa de Il sesto senso. Il suo protagonista, un bambino inseguito e disturbato da visioni, si presenta come il nuovo caso per il dottor Crowe, che entra in confidenza con lui, cerca di aiutarlo, di comprendere cosa gli faccia paura.                             Tutto però sembra ricondurre al ricordo di un caso seguito tanti anni prima, ad un bambino che non è riuscito ad aiutare e che ha poi deciso di cambiare la vita del dottor Crowe e di sua moglie.                                                                                                                                Crowe anche non è libero, vittima di un senso di “trasparenza” agli occhi della moglie, con la quale non riesce più a comunicare, che sembra ignorarlo. Crowe sta per cedere, intende smettere di seguire il caso di Cole ma quando il bambino gli confessa la sua paura, è l’inizio del viaggio dello stesso dottor Crowe. Quel viaggio verso la conoscenza della sua Verità.     In realtà, è Cole che sta aiutando lui. Perché Cole non è un bambino malato, ha un dono.

Mi piace interpretare questo film secondo una chiave di lettura che lasci trasparire il messaggio di quanto una sensibilità spiccata, se si vuole fuori dal normale, possa essere una capacità speciale. Una capacità di cui non avere paura. Mi piace leggerci un contatto tra mondi diversi e paralleli, in cui il male non esiste. Perché chi è dall’altra parte può solo saperne di più. Può solo dirci di più. Oppure, in un discorso più ampio, il sesto senso che qualcuno può avere è semplicemente la disposizione verso l’altro di cui dicevo all’inizio. Altro come mondo intorno, persone e cose.                                                                          C’è chi percepisce l’Essenza anche di un oggetto, di un luogo. Forse, c’è anche questo messaggio nel film, dato che si  il regista crea più atmosfere di suspace che horror, predilige i dialoghi, la musica e i colpi di scena.                                                                        La comprensione. Sì, perché il bambino cerca solo di non essere più considerato come uno scemo. La fiducia. Quella che il dottor Crowe si guadagna, attraverso la comprensione e che lo porterà Cole a capire la sua unicità.                                                                             E sul finale, il dottor Crowe può capire anche cosa è accaduto davvero, chi è e dire a sua moglie ciò che avrebbe voluto.                                                                                            Due Essenze, due realtà posso essere di nuovo in contatto, se ci lasciamo guidare dal sesto senso.

INCEPTION Sogno o realtà?

“I sogni sembrano reali finché ci siamo dentro, non ti pare? Solo quando ci svegliamo ci rendiamo conto che c’era qualcosa di strano.” (Dom Cobb)

E’ davvero difficile definire cos’è un sogno, è altrettanto difficile a volte, raccontarlo, descriverlo anche perché nel farlo subentrano meccanismi psicologici che lo alterano.         Il sogno va vissuto. Esiste solo mentre ci siamo dentro. E’ questa la sua essenza.           Non esiste al di fuori di quel momento.                                                                                    Il sogno non ha tempo e spazi definiti, è il virtuale perfetto: il sempre possibile altrimenti.

Personalmente, amo sognare. Il sogno è libertà, è come essere in un film dove tutto può accadere, dove non dominano le regole della vita reale.                                                         Il sogno può essere anche incubo. Ed anche nella forma dell’incubo in fondo non lo temo, è un’avventura paurosa e complessa.                                                                               Quando mi sveglio, il più delle volte, mi dico che vorrei poter restare nel mondo fantastico in cui vivo durante il sonno.                                                                                              Quando mi addormento, lo faccio assaporando il piacere della scoperta inconscia che avverrà nella notte.                                                                                                       Sognare è un’arte, come scrivere, leggere vive di altri, realizzare o guardare un film. Creatività pura.

Un film come Inception non può non essere tra i miei preferiti, come ritengo affascinante il fatto che non si possa raccontare. Inception parla di sogni, e come i sogni, è un film da vedere, da vivere, non da farsi raccontare o da raccontare. Anche perché non ci riuscireste, nel farlo vi rendereste conto che non è così semplice come per altri film.                       Potrei tentare di dirvi che racconta di un uomo, Cobb che è in grado di entrare nei sogni delle persone e carpire segreti dal loro inconscio. Cobb è ricercato e un potente industriale gli promette che lo aiuterà, se porterà a termine un’operazione diversa dalle solite: non prelevare un’ idea ma innestarla.

“Qual è il parassita più resistente? Un’idea. Una singola idea della mente umana può costruire città. Un’idea può trasformare il mondo e riscrivere tutte le regole.”

Cobb inizia così il percorso verso l’agognata libertà, recluta un chimico ed un architetto per completare la sua squadra di complici e a mano a mano, lo spettatore si sdoppia in spettatori attenti a più particolari: una parte della mente resta concentrata nel comprendere il funzionamento del sogno, un’altra parte la trama, un’altra parte le visioni al ritroso, un’altra i dialoghi. In chi guarda avviene una disposizione a scatola cinese, che riflette la struttura del sogno e del film stesso.

“Noi creiamo il mondo del sogno, portiamo il soggetto dentro quel sogno e lui lo riempie con i sui segreti.”

Inception riprende la domanda delle domande: qual è a vera realtà?

Tra effetti speciali, location note, la tarma come detto non lineare ma avvincente e un continuum di sensazioni, emozioni e domande, Inception si insinua nella psiche, nell’anima e nel cuore, mischiando apparenza e verità, fino al dubbio supremo che una verità assoluta non esista. Fino al desiderio di preferire il mondo del sogno, in cui trascorrere una vita intera, alla forse apparente realtà del mondo concreto.

Ambiguità.                                                                                                                          Incapacità di distinzione.                                                                                                            La risposta non esiste.                                                                                                             La vera realtà non esiste.                                                                                                 Esiste la risposta che ognuno di noi si dà. Solo noi possiamo decidere cosa è per noi reale. Esiste solo ciò che noi proviamo, quello che le visioni e situazioni ci suscitano.                      Siamo noi a scegliere.                                                                                                         Non sarebbe male scegliere il sogno come realtà, da cui ci svegliamo per essere nella quotidianità. Considerare che torniamo alla nostra realtà quando andiamo a letto, che di li a poco, ci riapproprieremo della nostra vita, fatta di sorprese, vicissitudini, dolor, gioie, viaggi e incontri. Dove possiamo rivedere persone lontane o che la vita nel mondo ci ha portato via. Visitare posti già visti, altri immaginati e sconosciuti.

        “Perché è così importante sognare?”                                                                                “Nei miei sogni siamo ancora insieme.”

E poi ci sono i ricordi.                                                                                                      Anche in Inception il ricordo ha tutto un suo valore specifico, pericoloso, soprattutto per il protagonista. Ed ognuno noi, credo sappia quanto il ricordo sia sempre, al di là dei sogni, attraente e rischioso, per ciò che è in grado di suscitare e provocare.                          Rifugio  o prigione. O sollievo dal presente.

Il regista C. Nolan, anche in questo film, conserva il suo stile e la capacità di far mantenere in equilibrio le dimensioni reali e quelle che attingono alle illusioni, ai tormenti interiori, agli inganni, il senso di colpa. I personaggi, nella loro eccezionalità hanno un qualcosa di tremendamente familiare, che permette allo spettatore di non percepirli lontani, bensì di entrare in empatia con loro. Forse, perché l’ingiustizia, le paure, la vendetta, il controllo son quanto di più comune tra gli individui e Nolan non propone mai personaggi che ne sono al di sopra.    

        

                                                                                                                                              Ed Inception coinvolge e stravolge almeno una piccola parte del nostro inconscio, insinua il dubbio, un’idea. Una parte di noi vorrebbe contemplarla, ma se il livello di immersione nella pragmatica realtà della vostra esistenza è anche solo nella norma, non ci riuscirete.

A me no che, non siate dei sognatori e non crediate con accettazione a tutto quello che razionalmente vedete accadervi intorno.                                                                       Lasciatevi solleccitare dalle domande, non cercate per forza delle risposte. Inception si conclude proprio nella non importanza della risposta. Vivete il vostro sogno!

MATRIX La realtà tra verità e apparenza

Oggi compie gli anni Keanu Reeves e per me che, tra tutti i personaggi che ha interpretato, è prima di tutti Neo del mio film preferito, come non cogliere l’occasione per scrivere di Matrix?

Keanu Reeves ha negli occhi qualcosa di speciale, trasmette calma e tormento insieme, ha un fascino sottile e non scontato, un magnetismo e una sensibilità che devo appartenergli profondamente.

Solo così riesco a spiegarmi come percepisco qualcosa di comune nei personaggi che interpreta.

Forse, Keanu Reeves, canadese, ma nato in Libano da genitori anglo-americani, è un po’ proprio come Neo sempre alla ricerca di qualcosa, in balia di una vita che lo ha visto presto toccare il successo nel mondo dello spettacolo e nello stesso tempo gli ha dato sofferenze a iniziare dall’abbandono del padre, una sorella malata, poi la perdita del migliore amico, della figlia e della donna che amava.

Tra luci e ombre, come nella vita di ognuno, a fare la differenza penso sia il modo di porsi e il livello di percezione di ciò che si vive.

Predestinazione, scelta, libero arbitrio sono temi centrali proprio del film Matrix.

Matrix è la domanda e la risposta.

Fulcro di una mia personale e sempre presente percezione dell’assenza di una Verità.

Nulla è ciò che sembra, la Verità non esiste… Chi siamo davvero?

Quanto la prospettiva secondo la quale vediamo la realtà e viviamo la vita, influisce su di noi?

Matrix dà la sua risposta. Ipotizza che il mondo che vediamo sia solo un’illusione creata dalle macchine. Quelle stesse macchine di cui hanno avuto bisogno gli uomini e che ora, necessitano degli uomini per esistere.

Energia. Esseri “coltivati”. Guerra macchine-uomini.

In questa realtà vive anche Neo, un hacker sul cui computer un giorno, iniziano a comparire frasi criptate riguardo a Matrix. Da questo momento, la sua curiosità e l’incontro con la misteriosa Trinity e l’enigmatico Morpheus lo portano ad intraprendere il viaggio alla scoperta di Matrix e soprattutto di se stesso.

E’ lui o no l’eletto? L’unico in grado di vincere le macchine e salvare il genere umano?

“Matrix è ovunque. È intorno a noi. Anche adesso, nella stanza in cui siamo. È quello che vedi quando ti affacci alla finestra, o quando accendi il televisore. L’avverti quando vai a lavoro, quando vai in chiesa, quando paghi le tasse. È il mondo che ti è stato messo davanti agli occhi per nasconderti la verità.”

Matrix è il primo film della trilogia dei fratelli Wachowski, a cui sono seguiti Matrix reloaded e Matrix Revolution.

Tra acrobazie, arti marziali, effetti speciali e atmosfere da fantascienza Keanu Reeves dà forma al suo personaggio, scoprendolo pian piano. Con la stessa tensione emotiva che Neo stesso comunica agli altri personaggi che incontra.

Simbologie e richiami, da parte di nomi di luoghi e personaggi, ad altri significati si intrecciano in un labirinto di rimandi e appassionante scoperta. Nulla è lasciato al caso.

Il tema della ricerca della verità, attraverso la rinascita, l’idea della scelta e riferimenti filosofici che rendono i dialoghi a volte poco comprensibili, ma carichi di tutto il valore dei riferimenti alla filosofia occidentale tra Metafisica, Epistemologia e Etica.

Il tema dell’eroe inconsapevole coinvolge da sempre e  questo film se lo gioca a modo suo.

Il topos Platonico del Mito della Caverna ritorna, insieme al Cogito ergo sum di Cartesio e tutto si sposa con dettagli derivanti dal Buddismo Zen, a dimostrazione che quello che siamo, che la storia del nostro pensiero non ha confini. Le domande che ci facciamo da secoli e continueremo a farci sono le stesse per ogni cultura, daranno ancora altre possibili risposte e poggeranno sempre sulle radici del passato.

Tante sono le frasi che ho apprezzato nel film, ma quella che più ricordo e che a volte mi torna in mente e per qualche strana ragione ha i suoi effetti o mi piace pensare che l’abbia è:                                                                                                                                     «Don’t think you are. Know you are.»                                                                               «Non pensare di esserlo. Convinciti di esserlo.»

E se ripenso a cosa provoca in Neo durante quella scena dell’addestramento, allora sorridendo riesco a lasciarmi tutto dietro, paura, dubbi, scetticismo. Sgombro la mente.